Protestanti e cattolici le differenze

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di Giorgio Girardet
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Il nostro è tempo di dialogo tra le fedi viventi. Proprio per questo e ancora più necessario che ciascuno conosca la casa in cui abita, tradizionale o di libera scelta che sia. Non è esatto dire che “tutte le religioni sono uguali”; ed è ancora meno esatto che “tutte sono ugualmente vere”. In tempi di pluralismo rispettiamo le differenze, ma ciò non significa che tutto sia relativo. Le chiese evangeliche vivono un cristianesimo “emendato” o purificato, che ha eliminato dottrine, devozioni e riti considerati aggiuntivi e non conformi al messaggio biblico originario. Di seguito si presenta sia il fondamento comune, sia le differenze che ancora separano le due grandi confessioni cristiane nel mondo occidentale.

CONVERGENZE E DIFFERENZE

Le convergenze:

Tutti i cristiani, ortodossi, cattolici e protestanti, credono in Gesù Cristo, unico Signore e salvatore; in un solo Dio creatore, che si è rivelato in Israele e in Gesù, come Dio di provvidenza ed amore; nello Spirito santo, o Spirito divino che è presente nell’universo e nella storia. Credono in un solo Dio in tre persone, secondo le formulazioni che della fede cristiana furono date dalla chiesa nei primi cinque secoli.

Tutti i cristiani riconoscono che Dio ha parlato per mezzo dei profeti e, quando i tempi furono maturi, ha parlato in Gesù Cristo: credono che la testimonianza della sua parola è contenuta nelle sacre Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento, cioè nella Bibbia, che è pertanto, per tutti, il testo fondamentale della rivelazione.

Tutti i cristiani condividono un solo battesimo, di acqua e di Spirito, che riconoscono vicendevolmente valido; tutti i cristiani celebrano la Cena del Signore, o eucaristia, alla quale tuttavia danno un significato diverso, ed alla quale non sono ancora in grado, in linea di principio, di partecipare insieme.

Tutti i cristiani ritengono che il Signore chiami coloro che credono in lui e che lo seguono, cioè il suo popolo, ad una vita di fedeltà nella testimonianza di fede e nella scelta di una vita vissuta in modo coerente con l’evangelo.

Tutti i cristiani si riconoscono come popolo di Dio, chiamato a servirlo e ad evangelizzare: essi costituiscono la chiesa, la cui realtà e modi di vita essi intendono tuttavia in modi diversi.

Tutti i cristiani vivono una vita aperta al futuro e al regno di Dio che viene, e attendono la realizzazione della piena redenzione promessa in Cristo.

Le differenze:

Riteniamo che la chiesa si regga sotto la sola autorità di Cristo, guidata dalla sua Parola e dallo Spirito, senza mediazioni: essa è un popolo di eguali, dove tutti sono sacerdoti e nessuno è sacerdote, che si governa da solo nelle vicende quotidiane.

Rifiutiamo l’istituto di un «ministero sacerdotale» che Cristo avrebbe istituito per amministrare i sacramenti e governare la chiesa; rifiutiamo un «ministero di Pietro» che intenda governare la chiesa in nome di Cristo.

Riteniamo che a Dio soltanto si debba rendere ogni culto e ogni devozione, e che lui soltanto debba essere onorato e festeggiato, secondo l’insegnamento delle Scritture.

Rifiutiamo ogni culto o devozione o onore o festa resi a creature umane, Maria o i santi.

Riteniamo che la sacra Scrittura e lo Spirito santo, ricevuti nella comunione della chiesa, siano guida sufficiente per la chiesa di ogni tempo.

Rifiutiamo l’affermazione che la chiesa abbia il potere e il dovere di esercitare un suo «magistero» definendo verità di fede o comandamenti etici che leghino tutti i cristiani.

Riteniamo che la chiesa sia nel mondo come forestiera e pellegrina, al servizio delle genti, e in particolare dei minimi e che essa si debba tener separata da ogni potere che non sia quello della parola di Dio.

Rifiutiamo una chiesa che, per esercitare il suo compito di annunciare l’evangelo di Gesù Cristo, si appoggi sul potere politico o economico; o che accetti, da parte dello Stato, protezioni o privilegi.

Con molta probabilità alla domanda: “Cosa sa dei protestanti?”, la prima cosa che la gente comune risponderà è che non accettano la figura del papa. Tale figura appare tanto centrale, evidentemente, da riassumere in sé l’essenza stessa del cattolicesimo e, addirittura, della fede cristiana; e il fatto che i protestanti hanno una posizione diversa viene spesso additato come atteggiamento grave e irrispettoso o addirittura sacrilego.

Ma non è così; si darà dunque alla questione del papato lo spazio necessario, ma si descriverà poi l’intero arco delle differenze che caratterizzano e ancora separano le due grandi confessioni cristiane nel mondo occidentale.

Ma non si sottolineeranno solo le differenze. E’ importante fin dall’inizio partire dal fatto che cattolici e protestanti condividono una comune fede cristiana, che nelle cose essenziali viene espressa con le stesse parole e che ha il suo centro ed il suo fondamento in Gesù Cristo. Semplificando possiamo dire che il protestantesimo è una forma di cristianesimo “emendata”, o corretta e in un certo senso purificata, in quanto essa ha eliminato dottrine, devozioni e riti che considera aggiuntivi e non conformi al messaggio originario di Gesù Cristo e della chiesa apostolica.

Al centro di ogni scelta religiosa e all’origine delle religioni storiche e delle diverse forme di cristianesimo vi è un’anzia di verità e un desiderio di fedeltà che dobbiamo conoscere e rispettare. Resteremo perciò pluralisti e accoglienti, ma non faremo a meno della ricerca della verità. Di una verità che non può essere relativizzata, ma solo confrontata, serenamente e seriamente, con le verità in cui credono gli altri.

IL FONDAMENTO COMUNE

Ecco i punti fondamentali della fede sui quali tutti i cristiani si riconoscono:

  1. La fede in Gesù Cristo, Signore e salvatore di tutti gli uomini e donne, uomo fra gli uomini e insieme figlio di Dio e Dio. Nato da donna, è stato crocifisso, è morto e risuscitato per la nostra salvezza, per liberarci dal male. Egli è “il solo nome per il quale possiamo essere salvati” (Atti 4,12).
  2. Un solo Dio creatore, che si è fatto conoscere e si è rilevato nella storia, al popolo di Israele, parlando per mezzo dei profeti e compiendo la sua rivelazione in Cristo. È il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, che preghiamo con le parole del Padre nostro. Il Dio che “ha amato tanto il mondo che ha dato il suo unigenito figlio affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna” (Giovanni 3,16).
  3. Lo Spirito Santo, ovvero lo Spirito divino presente nell’universo, la mano di Dio nella storia. Dio che chiama, che opera, che da vita. Lo Spirito che con il Padre e il Figlio forma la Trinità, dove le tre persone sono distinte, eppure un solo Dio. Anche questa è fede comune di tutti i cristiani, che su tale punto si differenzia da ogni altra religione.
  4. Tali affermazioni centrali della fede cristiana sono espresse dai grandi testi dottrinali della chiesa antica, i cosiddetti “Simboli”, come il Credo, che sono perciò un patrimonio comune di tutti i cristiani. A queste convergenze essenziali si aggiunge un vasto patrimonio di fede comune, che viene tuttavia definito o vissuto in modi diversi nelle diverse chiese. Unite nelle concezioni di fondo, esse spesso divergono nell’interpretazione e nell’applicazione alla vita dei credenti. Eccone alcune.
  5. La sacra scrittura dell’Antico e del Nuovo Testamento, come luogo della rivelazione di Dio in Gesù Cristo e come unico racconto della storia che Dio ha vissuto con gli umani, dalla chiamata di Abramo alla storia di Gesù, alla sua nascita e parole ed opere, fino alla croce, alla risurrezione e ella prima missione apostolica. Con le sue preghiere, leggi e insegnamenti, la Bibbia è il grande patrimonio insostituibile di tutti i cristiani.
  6. I due sacramenti del battesimo e della Cena del Signore, o eucarestia. Vi è un solo battesimo, nel nome del Padre del figlio e dello Spirito Santo, che le chiese riconoscono, così che un cattolico che entri a far parte della chiesa protestante (o viceversa) non viene ribattezzato. Nelle chiese evangeliche battiste il battesimo è tuttavia amministrato solo ai credenti adulti. Vi è anche una sola Cena del Signore, che è parte essenziale della celebrazione cultuale, e che dovrebbe essere, ma non è ancora, un segno di unità, in quanto alcune chiese, fra cui quella cattolica, non ammettono alla loro celebrazione eucaristica i fratelli e le sorelle delle altre chiese. La Cena è un possibile segno di unità che rimane segno di divisione.
  7. La via del cristiano, ovvero una vita coerente con la fede. In tutte le chiese ci si aspetta che il cristiano viva in modo coerente, nella fede, nella speranza e nell’amore. La professione della fede non può non essere separata da un comportamento etico corrispondente. I comportamenti o le attese delle diverse comunità cristiane possono differire nei casi concreti, ma l’esigenza di una vita coerente è comune a tutti.
  8. La chiesa, come comunità dei credenti può essere concepita in modi diversi (è qui che troviamo le differenze maggiori) ma la chiesa resta per tutti la realtà centrale del raccogliersi insieme del popolo di Dio, per la celebrazione domenicale e per la realizzazione delle opere comuni di servizio al mondo. Differiscono la concezione della chiesa e la sua importanza, ma per i cristiani di tutte le chiese è centrale l’esistenza di questa singolare “società” che intende se stessa come il popolo di Dio e il suo “tesoro particolare” per annunziare a tutte le genti l’evangelo del regno di Dio.
  9. Infine, l’apertura al futuro, al regno di Dio, la tensione verso il compimento finale dei tempi, quando le promesse che Dio ha fatto per mezzo dei profeti e di Gesù Cristo saranno alla fine realizzate. Anche questa visione del futuro è comune a tutte le chiese.

LE DIFFERENZE

Dividiamo il discorso in tre parti. Anzitutto la differenza più vistosa e centrale, quella del papato. Poi quelle riguardanti il piano dottrinale e del culto, e infine le differenze di clima spirituale, relative al costume, alla mentalità, alla cultura.

|  IL PAPATO  | LE DIFF. NEL DOGMALE DIFF. NELLA MENTALITA’, CULTURA E COSTUME | LE DIFFERENZE CHE DIMINUISCONO | LE DIFFERENZE CHE RESTANO|

  IL PAPATO

Una premessa importante: neppure da un punto di vista cattolico è corretto cominciare con un discorso sul papato, in quanto di esso si dovrebbe parlare quando si parla della chiesa e del sacerdozio, come fa, appunto, il Catechismo della Chiesa cattolica. Se ne parliamo all’inizio è perché — come dicevamo prima — la figura e la funzione del papa hanno assunto in tempi recenti una dimensione che non avevano in passato. Precisiamo che non si tratta di discutere di questo o quel papa, o del modo con cui egli esercita la sua funzione, ma dell’istituto stesso del papato, ovvero del cosiddetto «ministero di Pietro».

  Per sapere quello che insegna la chiesa cattolica a questo proposito non c’è da far altro che aprire il Catechismo della Chiesa cattolica, soprattutto ai paragrafi 880-882 e 891. Il Catechismo insegna che Cristo istituì il collegio dei dodici apostoli, del quale mise a capo Pietro; e che lo stabilì pastore di tutto il gregge: un ufficio pastorale, suo e di tutti i vescovi e dei suoi successori, che «costituisce uno dei fondamenti della chiesa». Il papa pertanto, «vescovo di Roma e successore di S. Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli»…, è «vicario di Cristo e pastore di tutta la chiesa, ha sulla chiesa potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente». Inoltre il papa è infallibile quando proclama «con un atto definitivo una dottrina riguardante la fede e la morale». A lui spetta di governare la chiesa, nel quadro della collegialità episcopale; di approvare la nomina dei vescovi; di dire l’ultima parola in fatto di dottrina e morale. Il papa è superiore anche al Concilio, che è l’assemblea straordinaria di tutti i vescovi. E il papa che lo convoca e le deliberazioni conciliari possono essere modificate o rifiutate dal papa.

  Queste affermazioni non sono condivise dalle altre chiese cristiane: né dai protestanti, né dagli ortodossi. Nessun’altra chiesa cristiana accetta perciò l’autorità del papa, né è disposta a riconoscerla nella forma con cui viene oggi esercitata. Su questo punto dobbiamo essere molto chiari, né dobbiamo lasciarci ingannare dal clima di fraternità con cui le altre chiese guardano alla chiesa di Roma come ad una chiesa sorella. Esse rispettano la sua libera decisione di avere per sé, cioè per la chiesa di Roma, un ministero come quello papale; ma allo stesso modo chiedono che i propri ordinamenti ecclesiastici, senza il papa, vengano rispettati e riconosciuti dalla chiesa di Roma. Si comprende così che la questione dei papato e della sua autorità è un punto serio e qualificante, forse il più serio di tutti, che fa da ostacolo all’unità, e spesso persino alla comunione dei cristiani. Lo hanno riconosciuto gli stessi papi quando si sono pronunciati sui problemi dell’unità cristiana.

  Chi ha ragione? Chi ha l’autorità per definire chi nella chiesa ha l’autorità per definire il vero e il falso? Si tratta di una questione preliminare ed essenziale. La chiesa di Roma risponde con una sorta di cortocircuito logico: sono io che ho l’autorità ultima per confermare la mia stessa autorità. Certo, ci si appella, come vedremo, alla Scrittura e alla tradizione. Ma quando da queste provenga un verdetto incerto, l’ultima parola spetta al magistero della chiesa, al papa, che così conferma autorevolmente la sua stessa autorità. In altri termini, alla fine è una questione di fede. Credete o non credete che Cristo stesso ha dato al papa, a Pietro e a tutti i suoi successori, in eterno, l’autorità per governare la chiesa e definirne la dottrina? E allora: non sono forse il papa e la chiesa ad essere i “padroni” della verità cristiana, attraverso i loro organi istituzionali?

  E’ qui che si innalza il muro di divisione fra le chiese:

il più alto e, nella prospettiva attuale, il più insuperabile. In effetti, il messaggio evangelico e l’esperienza storica della chiesa, di tutte le chiese, danno un’altra risposta, ben differente: l’autorità ultima non è mai stata delegata a nessuno, perché è il Cristo stesso vivente che l’ha voluta tenere per sé, governando la chiesa e indirizzando i credenti, nelle complesse vicende della storia, mediante due strumenti essenziali: la Scrittura e la guida dello Spirito santo. La Scrittura e lo Spirito, non la gerarchia, o la chiesa stessa. La chiesa di Cristo è guidata dall’«esterno», da un’autorità che può anche esercitare un giudizio sulla vita della chiesa stessa nella storia e sulle sue deviazioni e infedeltà. Tutto il contrario di quella «autogestione della verità» che la chiesa cattolica afferma di possedere.

  Su questo muro di divisione, la sua origine, la sua natura, e sulle possibilità di abbatterlo occorre soffermarsi, precisandolo con alcune ulteriori considerazioni.

  Il «ministero di Pietro» non ha fondamento biblico

  Per prima cosa dobbiamo dire con grande chiarezza che al papato, soprattutto nella definizione che ne dà oggi la chiesa cattolica, manca il fondamento biblico. Si afferma, è vero, che Cristo avrebbe fondato la chiesa, e in essa il collegio apostolico, mettendovi a capo Pietro e i suoi successori. Ma si tratta di affermazioni che sono prive di fondamento storico e contraddette dagli scritti del Nuovo Testamento: dai Vangeli, dalle lettere di Paolo e dagli altri scritti che insieme costituiscono l’autorità centrale, ovvero la «rivelazione», per tutte le chiese cristiane.

  Anzitutto, manca ogni comandamento esplicito in proposito. Se sfogliamo le pagine del Nuovo Testamento e leggiamo le storie di Gesù con i suoi discepoli, e le vicende della prima missione di Pietro e poi di Paolo, se leggiamo le lettere di Paolo e persino quelle che portano il nome di Pietro, non troviamo alcun ordine o prescrizione, o suggerimento, che dica come debba essere governata la chiesa.   Anzi, non vi troviamo descritta o prescritta neppure una qualche forma di sacerdozio, o una sua istituzione. E neppure appaiono figure di governatori o di «vescovi» che esercitino funzioni paragonabili a quelle dei vescovi dei secoli successivi.

  Questo vale anche per il cosiddetto «ministero di Pietro». Bisogna dirlo chiaramente: del papato, negli scritti del Nuovo Testamento, non se ne parla: né nella sua forma attuale, né in forme più blande o simboliche, con un’autorità simile, tanto per fare un esempio, a quella che hanno i patriarchi ortodossi delle antiche sedi apostoliche. Di questo ministero centrale non vi è traccia:

esso non viene né prescritto né presupposto. Neppure nel famoso tu es Petrus, «tu sei Pietro e su questa pietra io fonderò la mia chiesa» (Matteo 16,18). Come vedremo fra breve.

  Quella che invece troviamo nelle chiese di cui ci parlano gli scritti del Nuovo Testamento è una grande varietà di tipi di chiesa e di forme organizzative. Ma quando si viene a quella che noi chiameremmo la gestione del potere della chiesa, troviamo che è Pietro ad essere mandato in missione (Atti 8,14), e che non è lui a presiedere il cosiddetto primo Concilio, a Gerusalemme (Atti 15); troviamo che Pietro viene pubblicamente criticato e ripreso da Paolo (Galati 2,11-14). Pietro fu indubbiamente un personaggio chiave della prima missione cristiana, leader e spesso portavoce del gruppo dei dodici apostoli: a lui si fa riferimento come a un’autorità di fatto, ma nulla che ci permetta di vederlo come il primo papa, come autorità formale e definita; anzi neppure, strettamente parlando, come un «vescovo». Storicamente e sulla base del Nuovo Testamento, diremmo che il personaggio centrale è piuttosto Paolo, e non Pietro.

  Cosa significano allora le parole, così spesso citate, di Gesù che dice a Pietro: «tu sei Pietro e su questa pietra io fonderò la mia chiesa» e: «ti darò le chiavi del regno dei cieli; tutto ciò che avrai legato in terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che avrai sciolto in terra sarà sciolto nei cieli» (Matteo 16,18-19)? La pietra e le chiavi, il legare e lo sciogliere sono delle metafore: immagini che vanno al di là del senso materiale delle parole. Ma che esse volessero allora indicare il costituirsi di un’autorità unica affidata a Pietro (e ai suoi successori!) non venne in mente a nessuno, in quel tempo, e per gli oltre duecento anni successivi. Quando un vescovo di Roma, Stefano, a metà del III secolo d.C., le volle riferire alla propria autorità, incontrò la più vivace opposizione di altri vescovi, fra cui Cipriano di Cartagine.

  Guardiamo le cose più da vicino. Con quelle parole Gesù risponde a Pietro, che aveva allora confessato la sua fede in lui come «il Cristo, il Figlio del Dio vivente».   Nasce in quel momento, e Gesù lo dichiara con quelle parole, la nuova comunità di coloro che credono in lui e lo confessano come il Cristo: nasce, appunto, la chiesa. Qui viene posta la pietra di fondazione, che Gesù solennizza con le parole che abbiamo citato. E un atto solenne, che comprende una promessa di costanza e una capacità di resistenza contro le forze del male: una promessa fatta a tutta la chiesa («le porte dell’Ades», delle potenze del male, «non la potranno vincere»): non si tratta della costituzione di un governo e di un primato.

  Poi vi è la parola delle «chiavi». Qui Gesù consegna alla chiesa, a tutti i credenti, un’autorità e una responsabilità effettive: Pietro, come primo e (allora) unico credente, rappresenta in sé tutta la chiesa. Poco dopo, nello stesso Vangelo, le medesime identiche parole del legare e dello sciogliere saranno rivolte a tutta la comunità dei credenti, cioè appunto, alla chiesa (Matteo 18,18).

  Non c’è dubbio che Pietro abbia svolto una funzione di iniziativa e di guida nei primi anni della missione cristiana, ma tale funzione, secondo il racconto del libro degli Atti degli apostoli, che è la sola fonte che abbiamo, si sarebbe conclusa abbastanza presto, quando Paolo gli sarebbe subentrato come figura centrale.   Pietro allora scompare. Secondo la tradizione Pietro sarebbe venuto a Roma dove sarebbe morto martire. La cosa è possibile, e una tradizione posteriore lo sostiene, ma di questo né il Nuovo Testamento né i più antichi scritti cristiani offrono alcuna traccia esplicita.

  Nei Vangeli viene riconosciuto a Pietro il ministero di «confermare i suoi fratelli» (Luca 22,32), e di «pascere le pecore» del Signore (Giovanni 21,16-18), ma tutto ruota attorno alla persona di Pietro e alla sua vicenda di rinnegamento e perdono, senza tracce di una qualche istituzione «petrina».

  Se da Pietro passiamo poi a parlare di «successori», entriamo nel regno della fantasia storica. Non solo le parole di Gesù a Pietro non possono essere forzate a significare l’istituzione di un ministero nella chiesa, da trasmettere ai successori come un sovrano passa il suo scettro ai discendenti…, ma di tale autorità da trasmettere e della sua trasmissione non troviamo nessuna traccia in tutta la storia della chiesa antica. Siamo qui davanti a quello che gli antropologi chiamano un «mito di fondazione», costruito a posteriori: con tutto il rispetto per la serietà e la buona fede con cui esso possa venir raccontato e creduto.

  Ma occorre un governo centrale?  Nei duemila anni di storia cristiana il papato è stato una grande realtà storica, religiosa e politica che ha segnato alcuni momenti significativi della storia dell’Occidente. Ma appunto: una realtà storica, non una questione di fede. Fu infatti nel corso della storia che il vescovo di Roma, a partire dal IV secolo, vide accrescere la sua autorità sia in campo ecclesiale, essendo il solo patriarca di tutto l’Occidente, sia in campo politico, per il venir meno di altri poteri, e per il valore simbolico della città di Roma. Fu la storia a creare, per così dire, il papato ed a consolidarlo, fino a farne una delle istituzioni forti dell’Occidente, accreditandolo come un’istituzione ovvia e necessaria. Il che potrebbe anche essere difendibile dal punto di vista puramente storico, senza che questo abbia risvolti sul piano delle verità della fede. E del resto sulla base di questa esperienza storica che spesso si argomenta sulla opportunità pratica di un ministero di unità e di governo della chiesa. In che altro modo, si dice, si potrebbe evitare la dispersione e le divisioni, che caratterizzano le altre chiese cristiane?

  Sono considerazioni di opportunità pratica, non di dottrina. Eppure anche qui ci si può domandare, sempre restando sul piano empirico, se il papato non sia stato, storicamente, un fattore di divisione piuttosto che di unità. Lo è stato, indubbiamente, nel momento delle due grandi fratture, quella dell’XI secolo con le chiese d’Oriente e quella del XVI secolo con la Riforma protestante, quando fu il papato a innalzare quei muri che ancora sussistono. Del resto, è davvero necessario alla chiesa cristiana un governo centrale, come se fosse uno Stato? E davvero utile? Se paragoniamo il cattolicesimo con le altre confessioni cristiane e con religioni storiche come l’ebraismo, l’islam o il buddhismo, vediamo che nessuna di esse dispone di proprie strutture centralizzate e universali, di governo o di magistero, senza che tale «vuoto» abbia impedito a ciascuna di esse di conservare la propria fede e cultura specifica; e anche la sua unità sostanziale. In tutto il mondo delle religioni il cattolicesimo romano è il solo ad avere un governo centrale. E l’eccezione, non la regola. Detto questo, rimane ancora aperto il problema dell’unità della chiesa e degli strumenti per realizzarla. Un argomento sul quale torneremo.

  Quale «governo» per la chiesa? 

  Alla fine, la questione del papato si riduce alle diverse risposte che si possono dare alla domanda: in che modo si governa la chiesa? Qual è il modello, se un modello esiste, su cui uniformare le strutture delle chiese cristiane alla fine del XX secolo? Quali sono le «funzioni» che la chiesa svolge, e a quali uomini e donne in particolare esse vengono affidate? Sembra chiaro che la risposta a tale domanda dev’essere cercata nei documenti di fondazione della chiesa stessa, cioè negli scritti del Nuovo Testamento. I quali, come abbiamo già detto, non ci offrono alcun modello teorico di principio (un modello fondato sui vescovi, o sulle assemblee rappresentative) al quale uniformarsi, e neppure ci fanno intravedere, se non in modo indiretto, in che modo, e secondo quali regole, le prime comunità cristiane si organizzavano. Troviamo invece indicati i criteri di fondo sui quali si reggeva la vita delle comunità, il loro clima dominante, la mentalità di base. Quali sono dunque i criteri di fondo su cui organizzare la vita della chiesa e articolare i suoi ministeri?

  1. Ministro vuol dire «servitore».Il punto di partenza è che Gesù «è colui che serve », «è venuto per servire ». Fondamentale è la parola di Gesù ai discepoli che disputavano su chi fra loro fosse il maggiore: «Voi sapete che quelli che sono reputati prìncipi delle nazioni le signoreggiano, e che i loro grandi le sottomettono al loro dominio. Ma non è così tra di voi; anzi, chiunque vorrà essere grande fra voi sarà vostro servitore; e chiunque, tra di voi, vorrà essere primo sarà servo di tutti». Segue la spiegazione: «Perché anche il Figlio dell’uomo — cioè lo stesso Gesù — non è venuto per essere servito, ma per servire» (Marco 10,42-44).
  2. Tutti i credenti sono eguali fra loroe manifestano la loro volontà comune attraverso il consenso espresso nelle assemblee, come vediamo dalle procedure descritte nel libro degli Atti degli apostoli e come leggiamo nelle esortazioni alla reciproca accoglienza in un clima di fraternità. Nessuno nella chiesa deve essere chiamato «maestro», o «padre», o «guida» (Matteo 23,9), perché uno solo è il maestro. Neppure esistono nella chiesa «sacerdoti» nel senso di un ministero speciale e riservato ad alcuni appositamente ordinati a tal fine, e che abbiano in qualche modo il monopolio del rapporto con Dio, la celebrazione dei sacramenti, il governo della chiesa.
  3. I doni e i servizi sono suscitati dallo Spirito.Essi danno vita, senza dubbio, a delle diversità, che però sono liberamente suscitate dallo Spirito (sfuggono cioè al controllo dell’organizzazione della chiesa) e che permettono di diversificare le azioni della comunità senza mettere in questione la sua unità, e senza creare in essa delle gerarchie di dignità o di potere, secondo l’immagine del corpo con le sue varie membra tutte di pari importanza (I Corinzi 12,11-21).
  4. Ogni comunità cristiana è indipendente, localmente responsabile della sua vita; essa è, per dirla nel linguaggio di oggi, «autonoma». La relazione e la solidarietà delle diverse comunità locali è assicurata dallo scambio di informazioni, dalle visite, dalle lettere. In un caso si è giunti ad un’assemblea generale di rappresentanti di diverse realtà locali, e fu il cosiddetto Concilio di Gerusalemme, raccontato in Atti 15. La chiesa non ha perciò una struttura gerarchica, piramidale, ma è una realtà orizzontale e circolare, fondata sulla solidarietà di ogni sua parte. Non era una «democrazia» come l’intendiamo noi, ma è qualcosa che, nella mentalità e nel funzionamento, le somiglia molto.

  Le nostre ragioni A questo punto dobbiamo concludere la parte relativa al cosiddetto «ministero di Pietro» indicando la posizione delle chiese evangeliche in proposito.

  Le ragioni del «no». Si è visto che le ragioni del «no» sono forti e antiche. Non si rifiuta il cattivo esercizio di un ministero che in sé sarebbe buono, o indifferente, ma se ne fa una questione fondamentale di verità. La chiesa cristiana non può reggersi legittimamente nella forma di una monarchia assoluta universale. Inoltre le chiese evangeliche vedono chiaramente il danno storico che è rappresentato dall’esistenza del papato, e si collegano al filo rosso della protesta antiromana, di tutti i secoli. Se il papato è antico, la protesta contro il papato è altrettanto antica. Storicamente il papato è stato un fattore di divisione, non di unione. Le indubbie benemerenze che esso ha acquistato in alcune epoche storiche, compresa la presente, non ci possono far dimenticare che esso è stato spesso anche un intoppo e un motivo di scandalo. Come motivo di intoppo e di scandalo continua ad essere la dimensione politica, e pesantemente «temporale», del papato, con la sua struttura simile a quella di uno Stato (lo Stato della Città del Vaticano!) che intrattiene relazioni diplomatiche con gli altri Stati.

  Le ragioni del «se». Oggi ci s’interroga spesso se il papato non potrebbe anche avere una funzione positiva, come punto di riferimento e luogo d’incontro dei cristiani di tutte le chiese. Dal momento che il papato esiste — si dice — e che ha più volte ben meritato nelle vicende umane, come fattore di pace e cattedra di umanità, non sarebbe in qualche modo possibile ricuperarlo come ministero di unità per tutti i cristiani? É la domanda che molti si pongono, e che la chiesa di Roma sostanzialmente propone. Magari con un papato modificato, come lo stesso papa ha fatto intravedere nell’Enciclica Ut unum sint del 1995: se non si può cambiare il ministero papale in sé, si possono forse modificare i modi del suo esercizio. Non sarebbe allora possibile, in via d’ipotesi, avere un papa che «regni» nella chiesa cattolica, secondo le modalità proprie di quella chiesa, e che sia al tempo stesso una figura simbolica e un segno di unità per tutte le chiese e per tutti i cristiani? Un re in casa sua e un presidente simbolico per tutti gli altri?

  L’ipotesi è stata presentata, e non è escluso che possa essere concretamente proposta all’attenzione di tutte le chiese. Ma al momento attuale appare poco verosimile. Anche perché la credibilità e accettabilità di un ministero di unità affidato al papa e riconosciuto dalle altre chiese dipende in misura larghissima dal modo in cui la sua autorità si esercita all’interno della sua stessa chiesa. Ogni condanna per eresia, ogni processo fatto a un teologo, ogni allontanamento dall’insegnamento, ogni nomina di vescovo sgradito alla chiesa locale accumula nuovi ostacoli alle possibilità di un riconoscimento — sia pure simbolico — di un ministero di unità del vescovo di Roma. Certo, c’è chi sogna una profonda trasformazione interna della chiesa cattolica, e vede un papa che si autotrasforma in una specie di presidente «onorario» di un Concilio cattolico (che si dovrebbe autoconvocare, poniamo, ogni dieci anni). Un vescovo di Roma che prenda conoscenza delle questioni che emergono nella sua chiesa e che informi e contribuisca al coordinamento del corpo ecclesiale. Un papa che sia un pellegrino di amicizia, senza autorità propria, presente in tutte le assise ecclesiastiche. Se la trasformazione del ministero di Pietro dovesse andare in quella direzione il discorso potrebbe senza dubbio essere riaperto. Ma per il momento — ci sembra — non si tratta che di un sogno. Nel concreto, il papato «reale», quello che conosciamo, viene rifiutato dalla metà dei cristiani, ortodossi e protestanti: al di là di ogni buona volontà e cortesia ecumenica.

  Da parte sua la Chiesa evangelica valdese, nel Sinodo 1995, si è espressa sulla questione del papato, a commento dell’Enciclica Ut unum sint. Essa ha riaffermato la propria concezione dell’unità cristiana che si definisce come «diversità riconciliata» e come «unità nella diversità». L’unità pertanto si deve fondare non intorno a un particolare centro visibile o un particolare ministero di unità, ma «sulla comunione nella fede, nella speranza e nell’amore». Il documento continua affermando che «le nostre chiese non ritengono costruttivo per il movimento ecumenico un modello di unità cristiana incentrato sull’affermazione del primato del pontefice romano». Anche nell’ipotesi di un papato che esercitasse in altro modo il primato, il documento esprime le sue riserve, osservando che il mutamento dovrebbe invece riguardare non i modi, ma «la sostanza del primato papale».   Inoltre, «il problema del papato non può essere isolato da quello della struttura gerarchico-sacramentale della chiesa cattolica romana».

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LE DIFFERENZE NEL DOGMA

  Abbiamo dedicato molto spazio alla questione del papato. Passiamo ora alle altre differenze, alcune delle quali restano profonde e radicali, mentre altre sono più relative, legate alle tradizioni, alle usanze, al costume. Anzitutto un’idea d’insieme. Possiamo descrivere la funzione che la Riforma protestante ha svolto nella cristianità occidentale come una potente azione di semplificazione e, nelle sue intenzioni, di purificazione. Si trattava di eliminare abusi; rimettere Cristo al centro della devozione, altrimenti dispersa in mille culti secondari di santi e reliquie; ricollocare la predicazione della Parola, cioè la Bibbia, al centro della vita della chiesa e dei suoi comportamenti politici ed etici; superare una spiritualità centrata sulle opere buone e «meritorie» e sulla pratica dei sacramenti, troppo spesso intesi come riti sacri da compiere in vista della salvezza. Si trattava anche di rimettere la nuda parola di Dio al posto centrale, di fronte all’accumularsi di tradizioni neppure sempre antiche e verificate; ricuperare la precarietà dell’esistenza quotidiana della chiesa in alternativa alla ricerca di prestigio e potere; ritrovare la dimensione fraterna e locale, o localistica, della comunità dei credenti nei confronti delle grandi realtà sopranazionali. Tutto questo si è tradotto in un’opera che è apparsa, e non poteva non apparire, un’opera di demolizione…, come di chi ripulisce un terreno abbandonato e soffocato dalle troppe piante estranee e selvatiche che toglievano la luce alle erbacce antiche e di buon frutto. Non è possibile comprendere la Riforma protestante, né il protestantesimo attuale, se non si entra nello spirito di quella grande, coraggiosa, e qua e là persino eccessiva, opera di purificazione e ricostruzione della chiesa di Cristo. Così essa è stata intesa dai riformatori del XVI secolo. Indichiamo rapidamente i principali punti di dissenso e di differenza.

  1. Il Dio di cui ci parla la Bibbia si rivolge a tutti gli umani, direttamente e senza intermediari. Quindi: nella chiesa non vi sono sacerdoti. Dio può scegliere l’uno o l’altro come suo messaggero temporaneo, per una missione profetica, come leggiamo nella Bibbia; ma quando si è rivelato in Gesù Cristo non ha creato una classe permanente di suoi interpreti privilegiati, non ha istituito dei mediatori, quasi canali obbligati per trasmettere la salvezza attraverso la celebrazione dei sacramenti: uomini che delle cose sacre avessero, nella chiesa, un monopolio esclusivo. Questa è una differenza essenziale, la più importante, e la più difficile da superare.   Per affermare questa totale assenza di mediazioni le chiese evangeliche si fondano sull’insegnamento della Scrittura. Nella chiesa degli apostoli vi è un solo Sacerdote, cioè Gesù Cristo, che raccoglie in sé, realizza e annulla il ministero sacerdotale di mediazione con il sacro, che era parte essenziale della Legge dell’antico Patto, com’è ampiamente argomentato nella Lettera agli Ebrei, capitoli 5-8. In un altro senso invece tutti i credenti sono sacerdoti, e hanno, tutti, il medesimo compito di gestire e comunicare la verità dell’evangelo (con i segni sacramentali ad essa connessa): nella prima lettera di Pietro si dice del popolo della chiesa: «voi siete una generazione eletta, un real sacerdozio, una gente che Dio si è acquistata» (I Pietro 2,4-9). E l’Apocalisse (1,6): «Egli [Cristo] ci ha fatto essere un regno e sacerdoti all’Iddio e Padre suo». Quindi non vi è alcuno spazio per un ministero sacerdotale come viene inteso nella chiesa cattolica, ed a questo si attengono le chiese evangeliche. I loro «ministeri», ovvero servizi nella chiesa (per esempio, i pastori) non hanno un carattere sacerdotale, come viene confermato da I Timoteo 2,5: «vi è un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo». Pertanto rifiutiamo l’affermazione secondo la quale Cristo avrebbe istituito nella chiesa un ministero sacerdotale che lo rappresenti e ne continui la missione, e che in particolare abbia la prerogativa esclusiva di celebrare i sacramenti.
  2. Dio solo è «santo», tutta la terra è il suo tempio e il luogo della sua presenza. Dio non abita in luoghi particolari, o in case fatte dalla mano dell’uomo. Non esistono perciò luoghi consacrati, né atti in sé sacri: passaggi riservati ed esclusivi, che stabiliscano un ponte fra Dio e il mondo: neppure la chiesa, neppure i sacramenti; neppure l’edificio ecclesiastico, dove i credenti si radunano per il culto. La chiesa si costituisce là dove due o tre sono riuniti nel nome di Gesù (Matteo 18,20) in ogni luogo e tempo, senza bisogno di luoghi consacrati, né, come abbiamo detto, di persone munite di funzioni sacerdotali. I due sacramenti (battesimo e Cena del Signore, o eucaristia) non sono atti sacri che abbiano bisogno di una mediazione particolare, ma sono un annunzio, realizzato con atti simbolici, dello stesso evangelo della grazia che viene proclamato nella predicazione.   La celebrazione eucaristica, che sta al centro della messa cattolica, non è la «ripetizione», comunque la si voglia spiegare, dell’unico sacrificio di Cristo, ma ne è una ripresentazione, una memoria, un annunzio. Perciò nessuna «adorazione» dell’ostia (che troppo fa pensare a un atto di idolatria), nessun ostensorio, e nessun altro atto o gesto sacrale, come le diverse benedizioni di luoghi, persone, momenti. I sacramenti sono soltanto due, il battesimo e la Cena del Signore, i soli che rispondano ad un preciso mandato evangelico. Pertanto rifiutiamo l’affermazione secondo la quale la predicazione dell’evangelo e l’amministrazione dei sacramenti siano di competenza esclusiva della chiesa gerarchicamente costituita attorno ai vescovi e al papa. Ogni comunità di cristiani raccolta attorno alla parola di Dio e sottoposta alla sua autorità ha il pieno diritto di annunciare l’evangelo e di amministrare i sacramenti secondo l’autorità che Gesù le ha trasmesso.
  3. Vi è un solo Dio, al quale solo rendere il culto. È il primo comandamento del Decalogo (Esodo 20). Su questo si accordano tutti i cristiani, in tutte le chiese; sappiamo infatti che nessuno «adora», nel senso stretto della parola, la Madonna e i santi, i quali sono oggetto di venerazione e non di adorazione. Tuttavia, il solo fatto di «invocare» altri che non siano Dio, il Padre, o Gesù Cristo, o lo Spirito santo, di rivolgere a loro una preghiera, sono di fatto un atto di culto: una trasgressione esplicita del primo comandamento, che dice: «Non avere altri dèi oltre a me» (Esodo 20,3) e «Adora Dio solo e a lui solo rendi il culto» (Luca 4,8). I cristiani evangelici escludono perciò ogni preghiera o gesto di devozione rivolto a Maria o ai santi, i quali sono esseri umani, e tali restano, anche se hanno condotto una vita esemplare o sono stati oggetto, in vita, di una particolare grazia di Dio.   Su questo punto i cristiani evangelici sono particolarmente sensibili e intransigenti, e considerano ogni atto di culto, ogni devozione rivolta a Maria o ai santi, come una mancanza di attenzione alla centralità di Cristo e all’unicità di Dio. Tanto più che la devozione mariana gode, in molti settori del cattolicesimo, di un’importanza e di una quasi centralità che restano incomprensibili a chi si alimenti della spiritualità evangelica. Quando si pensa all’estensione e all’importanza del culto di Maria, si deve prendere atto che qui c’è una differenza di fondo, un’incompatibilità profonda.   Pertanto rifiutiamo l’affermazione secondo la quale la «santa Vergine» debba essere onorata con un culto speciale e con preghiere e feste particolari, o che uomini di Dio detti «santi» debbano ricevere una devozione particolare. Si tratta di usanze e devozioni che appaiono del tutto estranee alla spiritualità evangelica.
  4. Della centralità della sacra Scrittura abbiamo già detto. Qui ritroviamo il principio della Riforma protestante, il sola Scriptura, «mediante la Scrittura soltanto». La chiesa non può mettere a fondamento della verità la sua «tradizione», ovvero le dottrine, i riti e le usanze che si sono sviluppate nel corso dei secoli senza che esse vengano attentamente vagliate e controllate sulla Scrittura e sul suo insegnamento fondamentale. Se il fiume della chiesa cristiana ha raccolto nei secoli le acque di molti affluenti, essa deve in ogni tempo controllare alla sorgente l’autenticità della sua fede. La verità della chiesa sta nel suo essere conforme alla sorgente; la critica dei teologi che si svolge al suo interno ha il compito, necessario in ogni epoca, di riportarla alla sua condizione originaria. E con questo crìterio che deve essere esaminata ogni dottrina e tradizione e usanza. Non per cristallizzarsi in un immobilismo utopico, al di fuori della storia, ma per vivere, nel mutare dei tempi, nella fedeltà all’evangelo originario.  Pertanto rifiutiamo l’affermazione che la chiesa abbia il potere di esercitare il suo magistero definendo in modo infallibile verità di fede o comandamenti etici che tutti dovrebbero credere e osservare. Riteniamo invece che in ogni tempo lo Spirito santo assista la chiesa, sì che essa possa, con il timore e il tremore di chi si sa sottoposto al giudizio di Dio, riconoscere la via che Dio stesso le traccia davanti e le parole che le suggerisce per dire la sua fede.
  5. La chiesa cristiana non ha potere. Né sul piano economico né su quello politico. Essa è la raccolta o assemblea dei discepoli di Gesù, che non partecipa al potere né alle sue lotte. E’ una società di poveri, che vive in mezzo alla gente come se fosse composta di «stranieri e immigrati», cittadini di un mondo nuovo, non ancora realizzato. Per questa ragione i cristiani evangelici sono particolarmente sensibili al fatto che la chiesa cattolica coincide con una realtà di potere storico e «mondano», che è governata in modo autoritario al suo interno e coinvolta nelle strutture politiche del mondo, con le quali è costretta a venire a patti. Tale dimensione politica e «costantiniana» (con riferimento all’ imperatore romano Costantino, che nel IV secolo riconobbe la chiesa come realtà sociale e politica) è oggetto di critiche anche all’interno della chiesa cattolica. Pertanto rifiutiamo l’affermazione che la chiesa possa e debba contare, per l’esercizio della sua missione spirituale, sul potere politico ed economico, e che essa possa accettare da parte dello Stato una particolare protezione o situazioni di privilegio. Affermiamo che Gesù è venuto per servire, si è identificato con i minimi della società e ha escluso che i suoi discepoli potessero esercitare nel mondo un qualche potere.
  6. Questi sono i cinque grandi punti di dissenso. Ne esistono altri, minori, che menzioniamo brevemente.

    6.1 Il culto nella chiesa evangelica (che si è sempre svolto nella lingua del popolo) si sviluppa secondo uno schema più flessibile di quello cattolico: non vi sono testi normativi, e si dà spazio alle innovazioni, o alle diversità di tradizioni e culture. Al centro del culto sta la predicazione della parola di Dio (il sermone), da parte di un pastore, ma anche di un predicatore laico. La celebrazione della Cena del Signore, che non avviene ogni domenica, è conferma e commento simbolico della predicazione della parola di Dio.   Questa è una differenza di un certo peso, dato che la messa cattolica è tutta centrata sulla celebrazione eucaristica.

    6.2 I cinque sacramenti cattolici della riconciliazione (penitenza), cresima, matrimonio, unzione e ordine sacro non sono considerati «sacramenti», cioè atti che dispensino una grazia particolare donata o trasmessa al momento della celebrazione. Alcuni di essi possono corrispondere ad atti cultuali significativi, o a momenti particolari dell’esistenza del credente in cui si invoca, nella preghiera, l’assistenza di Dio. Così è per l’annuncio del perdono, la confermazione, la benedizione del matrimonio, l’intercessione per i sofferenti e i malati, il riconoscimento o insediamento di un ministero nella chiesa.

    6.3 Per i cristiani evangelici non vi è una sola chiesa che possieda tutta la verità, e che sia «sorella maggiore» e magari «madre»: vi sono molte chiese che si riconoscono reciprocamente nelle loro diversità. La chiesa cattolica è una chiesa fra le altre, sottoposta allo stesso Signore che la guida e la giudica, come avviene per ogni altra chiesa.

    6.4 Nelle chiese evangeliche è stata riconosciuta la parità fra uomo e donna, così che le donne possono accedere a tutte le responsabilità e incarichi ecclesiastici. Alle donne viene perciò affidato anche il ministero pastorale, che in Italia svolgono da circa trent’anni senza clamori né polemiche e con piena capacità pastorale.

    6.5 Quanto al matrimonio, la chiesa cattolica lo ritiene valido soltanto quando non sia esclusa la volontà di avere dei figli, e nega la possibilità del matrimonio dei divorziati. Le chiese evangeliche lasciano queste cose alla scelta di coscienza dei coniugi.

    6.6 Similmente per i matrimoni interconfessionali, gli evangelici insistono sulla libertà di decisione dei coniugi, il cui matrimonio può essere celebrato nella chiesa evangelica o al municipio, o nella chiesa cattolica (soprattutto quando venga assicurata la libertà di coscienza dei coniugi).

    6.7 Infine, due curiosità. Nella formula catechistica cattolica il Decalogo (Esodo 20,1-17), ovvero i «Dieci comandamenti», sono stati riassunti in brevi frasi. Il 1° comandamento suona: «Non avrai altri dèi oltre a me» e il 2°: «Non nominare il nome di Dio invano». Scompaiono così le parole: «Non farti scultura né immagine alcuna…», cioè precisamente quel divieto delle immagini che è invece considerato essenziale dai protestanti. Così anche la numerazione dei comandamenti ne risulta sfasata e alla fine il catechismo cattolico deve sdoppiare l’ultimo comandamento in modo arbitrario.

    6.8 Altra differenza «storica» è la composizione della Bibbia, ovvero l’elenco dei libri che compongono l’Antico Testamento. La tradizione cattolica, codificata e ufficializzata dal Concilio di Trento (1545-1563), include nell’Antico Testamento, con pari autorità, anche il cosiddetto canone greco o «Secondo canone», cioè i libri di Giuditta, Tobia, il I e II Maccabei, la Sapienza, il Siracide, Baruc e la Lettera di Geremia, che vennero inclusi nell’antica versione greca della Bibbia, la Settanta. I protestanti si attengono al cosiddetto canone ebraico, seguito ancor oggi dagli ebrei. Di norma quindi le edizioni protestanti della Bibbia non contengono i libri del «Secondo canone».

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LE DIFFERENZE NELLA MENTALITÁ, CULTURA, COSTUME

Le differenze di pensiero e di dottrina, e quelle che si possono constatare quando si entra nelle rispettive chiese, non sono però tutto. Altre ve ne sono, più sottili e impalpabili, difficili da definire con precisione, che sono tuttavia importanti per accertare ciò che è «cattolico», o che è sentito come cattolico, e ciò che è «protestante». Vi sono cose che un cattolico considera normali e ovvie, e che perciò non mette in discussione, e che un protestante ha invece difficoltà a comprendere e ad accettare. E viceversa. Si tratta di una diversa mentalità e cultura, quasi di una differente visione del mondo, della società, della morale. E’ una diversità di clima spirituale, che si è formata come un sedimento storico e come frutto di un’educazione e di una mentalità che nascono dal prevalere, nella società, nella cultura e nella politica, dell’una o dell’altra confessione religiosa: quelli che fino a non molti decenni fa venivano definiti paesi «cattolici» e paesi «protestanti». Tali differenze hanno raramente radici essenziali nel dogma o nella morale; eppure esistono e pesano, tanto che è possibile anche oggi opporre in molti casi una cultura, o mentalità «cattolica» a una cultura o mentalità «protestante». Si tratta di differenze importanti, che si conservano come per eredità anche nelle popolazioni secolarizzate, che non possono più dirsi in senso stretto «cattoliche» o «protestanti». Un’eredità negativa, quando gli aggettivi «cattolico» e «protestante» servono ad opporre due gruppi sociali in lotta, come avviene in Irlanda; o un’ eredità positiva, quando una mentalità protestante si prolunga in un forte senso dello Stato e della responsabilità pubblica. Ecco alcuni tratti caratteristici di queste differenze di mentalità e di cultura.

  1. L’abitudine alla libertà di coscienza, alla libera scelta personale, all’esercizio della responsabilità individuale. Per il protestante il cristiano è, prima di tutto, un essere libero e responsabile: è maggiorenne e può e deve decidere da solo, nelle questioni politiche e culturali, e in quelle relative alle espressioni della fede. Non si tratta qui, come hanno equivocato gli interpreti illuministi del protestantesimo (e lo slogan viene ripetuto fino alla noia) di un «libero esame» soggettivo, di un «essere papi di se stessi». Il protestante vive nel contesto della sua comunità di fede, dove ascolta e parla in piena libertà, non è un individualista. Ma sa che per ogni decisione l’ultima istanza è la sua coscienza, illuminata dalla parola di Dio. Senza dubbio, un simile appello alla libertà è presente anche in casa cattolica, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II; ma non sembra essere ancora entrato nel cuore stesso della vita del cristiano cattolico. D’altra parte il protestante non conosce la prassi del confessionale e della direzione spirituale, né accetta dalla chiesa precetti e prescrizioni su quel che è lecito o illecito. Non esiste un «magistero» protestante, né in teoria, né nella pratica quotidiana: l’opinione si forma nel confronto e nel dibattito all’interno della comunità cristiana, che è luogo di riflessione e di consultazione sul piano locale, e nei sinodi o assemblee su un piano più generale. Questo orientamento, che si traduce anche sul piano dell’educazione e della formazione dei giovani, impedisce che si crei una mentalità di dipendenza: anche in materia politica e sociale. Come si vede, qui vi è una differenza importante, che incide sul costume politico e sociale e sulla vita quotidiana.
  2. La libertà nella chiesa e il modo di celebrare il culto.Tale libertà di fondo si esprime nella vita stessa della chiesa protestante. Si esprime sul piano organizzativo, dove la chiesa è retta da strutture che si possono legittimamente definire «democratiche»: il termine può essere usato, anche perché storicamente molte delle moderne istituzioni democratiche statali sono nate trasferendo sul piano politico istituti e comportamenti che erano stati già sperimentati all’interno delle chiese riformate. Anche il modo di celebrare e di vivere il culto risente di questo orientamento, per l’assenza di sacerdoti che abbiano, sulla comunità, un potere istituzionale e sacrale. I pastori, come si è detto, non sono sacerdoti e il loro compito di predicare e di amministrare i sacramenti sono svolti anche da non pastori. Di conseguenza, i protestanti hanno difficoltà a comprendere lo spinto di sottomissione e obbedienza che caratterizza il mondo cattolico, dove è difficile manifestare il proprio dissenso anche quando sia profondamente motivato da ragioni di fede. E ritengono che questo porti a creare una mentalità di sudditi, e non di cittadini: nella chiesa, e in politica.
  3. Il rifiuto di una spiritualità del «merito»e del valore positivo, quasi mistico, che viene dato talvolta alla sofferenza in sé, che viene non si sa come «offerta»: a chi e come? Qui sembra di essere agli antipodi della spiritualità biblica, che spinge invece a lottare contro il male, per la guarigione, o ad accettarlo come una verifica, una «prova», del nostro rapporto con Dio. La spiritualità della sofferenza tende invece a concentrarsi sul valore della prestazione umana in sé, o su atti di rinuncia volontaria, che vengono considerati «meritori». La visione protestante è opposta: essa si fonda sul messaggio evangelico della giustificazione dell’uomo mediante l’opera di salvezza che Gesù ha compiuto una volta per tutte, e che si riceve solo attraverso la fede: senza le opere della legge. La dimensione umana viene allora ad essere relativizzata e quasi schiacciata dalla grazia, e tutto quello che l’uomo può fare, tutte le sue buone opere, hanno un peso molto relativo, non contano più nulla. Ne consegue che la spiritualità cattolica è in linea di principio abbastanza diversa da quella protestante. Le posizioni si stanno riavvicinando: ma sono ancora distanti.
  4. Un diverso atteggiamento davanti alla vita.Di fronte al male, all’errore, al peccato, il protestante è posto dinanzi alla legge di Dio e riconosce di essere, personalmente, un trasgressore, un «peccatore». Ma nel medesimo momento riceve l’annuncio della grazia e del perdono, che lo libera e fa di lui una «nuova creatura» determinando le condizioni perché possa operare in modo fedele e liberato. Di fronte alle scelte morali non vi è quindi posto per forme di patteggiamento, o di mediazione o di adattamento fra un comandamento, che si vuole assoluto, e la concreta situazione umana, debole e contraddittoria. Non vi è posto per cose che la legge della chiesa vieterebbe, ma che il confessore o il direttore di coscienza può permettere. Non vi è posto per le mezze verità e le bugie «pietose». Non vi è posto per un peccato che venga riscattato dalle elemosine (le «indulgenze»). In questo campo il cattolicesimo può apparire più accomodante e forse più «umano», ma non stimola le coscienze, non le fa crescere. Risulta perciò poco comprensibile al protestante che il cattolico accetti in ubbidienza che il suo magistero gli vieti comportamenti, per esempio in materia matrimoniale e sessuale, che egli invece poi adotta, senza gravi conflitti, e che, nonostante questo, continui a considerarsi, e ad essere considerato, cattolico e un buon cattolico.
  5. Altro interrogativo serio è quello sollevato dal cattolicesimo «popolare», per la disponibilità che il cattolicesimo sembra avere nell’accettare, e inglobare nel suo sistema di credenze, riti e usanze popolari che ben poco hanno a che vedere con l’evangelo di Gesù Cristo. Può trattarsi di tradizioni antichissime, che risalgono al tempo in cui i pagani accettarono di farsi cristiani…, i quali però portarono con sé nella chiesa i loro usi antichi, che fino ad allora erano stati considerati superstiziosi: questo va detto a proposito della venerazione delle reliquie e delle immagini sacre, per le feste dei santi, per i miracoli che le autorità religiose tollerano, per vere e proprie superstizioni popolari, come il miracolo di S. Gennaro a Napoli, o anche la venerazione della Sindone di Torino, o le tante statue di madonne che piangono. Tutto questo non è soltanto estraneo al protestante, ma gli è profondamente incomprensibile, ostico, irritante. Per cui alla fine avviene di chiedersi se in questo modo il cattolicesimo non varchi una soglia estrema, che lo porti fuori del cristianesimo. E vero che in tempi recenti si è cercato di limitare gli eccessi (anche perché, probabilmente, assistiamo al declino della cultura contadina, dove tali riti erano maggiormente di casa). Ma resta inaccettabile, per il protestante, che, comunque, si cerchi di ricuperare un qualche valore positivo di quella religiosità naturale, attribuendo a queste cose un mal definito valore simbolico, come contenitori di una possibile autentica religiosità cristiana.
  6. Altro ostacolo è il richiamo ad una «legge naturale», che dovrebbe aiutare a risolvere questioni etiche complesse, per le quali Bibbia e tradizione non danno indicazioni esplicite e codificate. Sembra talvolta di essere davanti ad un’ideologia della «natura», che viene poi applicata a questioni etiche delicate e controverse, come quelle relative alla contraccezione, alla pianificazione familiare, all’aborto. Non si tratta qui di un vero e proprio dogma, vi sono teologi cattolici che non accettano, o che rielaborano profondamente il richiamo alla «legge naturale»; ma è indubbio che il magistero cattolico, con la sua insistenza su tale legge come fonte di verità (accanto e oltre la rivelazione unica in Gesù Cristo?) crea profondo imbarazzo nei protestanti impegnati nel dialogo ecumenico.
  7. Infine, una tradizione di scarsa familiarità con la Bibbia e il suo messaggio, che va di pari passo con una minore importanza attribuita alla ricerca teologica. Qui vi è stata negli ultimi anni una grande svolta, che dà già qualche frutto. Ma le tradizioni sono tenaci e la mentalità di fondo è ancora rimasta largamente quella di una volta, così che il protestante si meraviglia nel vedere quanto deboli e sporadici siano tuttora, soprattutto in alcuni documenti del magistero, i riferimenti biblici. Inoltre, sembra spesso al protestante che la teologia abbia nella chiesa cattolica uno scarso rilievo e un’autorità troppo modesta — rispetto all’autorità del magistero. Viene così a mancare un luogo e delle occasioni per cercare insieme, in un dibattito pubblico e libero, le risposte alle grandi domande che ogni epoca pone alla fede.
E ORA?

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LE DIFFERENZE CHE DIMINUISCONO

Abbiamo parlato ampiamente delle differenze fra cattolicesimo e protestantesimo, perché intendevamo rispondere a un diffuso desiderio di conoscere quello che unisce e quello che divide le chiese cristiane. Ma la storia cammina e muove gli umani: quelle che erano ieri contrapposizioni di fondo possono apparire oggi meno gravi o meno insormontabili. Tutte le chiese cristiane si devono confrontare oggi con problemi comuni: la cosiddetta secolarizzazione (cioè il distacco in massa dalla fede cristiana), il risveglio d’interesse per le religioni, l’affermarsi di antiche e nuove realtà religiose (talvolta in forme aggressive e fondamentaliste), le proposte di revisione interna del pensiero teologico che provengono dal mondo non europeo, dalle teologie della liberazione e dalla teologia delle donne: sono tutti fattori di movimento che permettono di relativizzare divisioni antiche e superare barriere secolari. Sempre più, anche nei paesi di antica cristianità come l’Italia, cattolici e protestanti stanno imparando a pensare e ad agire insieme. E, molto spesso, anche a pregare insieme.

  Il cammino dell’avvicinamento è iniziato da oltre un secolo e ha portato a convergenze, dialoghi e atti di vera e propria comunione che sarebbero stati impensabili cento anni fa. Il movimento ecumenico, ha cominciato con il gettare ponti fra alcuni teologi, vescovi, responsabili di chiese, i quali hanno creduto che i rapporti fra i cristiani potessero essere cambiati, in obbedienza all’evangelo di Gesù Cristo, in modo da non essere più caratterizzati dalle scomuniche reciproche, dalle concorrenze, dall’isolamento orgoglioso di ciascuno nella sua chiesa. Il clima è mutato lentamente. Prima fu la generazione dei pionieri, quasi ai margini delle chiese ufficiali che guardavano con diffidenza e ostilità a quello strano «irenismo» o pacifismo cristiano. Ancora nel 1928 l’enciclica «Mortalium animos» di Pio XI lo condannava apertamente, e questo negli anni in cui le chiese protestanti, anglicane e ortodosse gli davano il massimo slancio. Fu quasi 50 anni fa, nel 1948, all’indomani della seconda guerra mondiale, che, dopo un lungo lavoro preparatorio, si costituì ad Amsterdam il Consiglio ecumenico delle chiese, con sede a Ginevra; un organismo permanente di incontro e di stimolo al lavoro comune per i cristiani di tutte le chiese, con l’importante eccezione — fino a quel momento — dei cattolici.

  Ma con il Concilio Vaticano II anche la chiesa cattolica si è aperta all’ecumenismo, e da allora l’idea ecumenica ha fatto molta strada. Le differenze che abbiamo visto sono rimaste sostanzialmente quelle che erano, anche se alcuni angoli sono stati smussati. Nel corso del cammino si è dovuto rinunciare a quello che era stato il progetto e la speranza dei primi pionieri di giungere un giorno ad una chiesa organicamente unita; ma si è sviluppata una concezione che si fonda sulla riconciliazione e la reciproca accettazione delle chiese pur nelle loro diversità; intanto il clima generale è mutato, in positivo, e le possibilità d’incontro e di lavoro comune fra cristiani delle diverse chiese si sono moltiplicate e allargate.

  Si assiste intanto a un processo di crescita comune e di apprendimento reciproco. I protestanti si sono fatti più sensibili alle questioni relative all’unità ed alla testimonianza comune, superando una loro tendenza sottilmente settaria a considerare ognuna delle tante chiese protestanti come realtà del tutto autonome e autosufficienti e relegando ai margini la solidarietà con le altre chiese. I protestanti si sono anche fatti più attenti a un linguaggio meno unilateralmente individuale e più aperto al simbolo.

  I cattolici da parte loro stanno acquistando, insieme ad una crescente familiarità e amore per la Bibbia, una concezione più partecipata non solo del culto, dove la riforma liturgica realizzata dal Concilio ha avvicinato grandemente la messa cattolica al culto protestante, ma anche nella vita della chiesa, dove si manifestano crescenti spinte dal basso per una vita più partecipata.

  In questo quadro si svolge un crescente scambio interconfessionale. I matrimoni interconfessionali fra cattolici e protestanti, che sono sempre più frequenti, non sono più soltanto causa di tensioni e di scontri, come era in passato, ma diventano possibili luoghi di incontro e di collaborazione fra i credenti dell’una e dell’altra chiesa. E’ anche più frequente il caso di cattolici che frequentano il culto protestante «in amicizia» e senza diventare protestanti, e viceversa. Non sono rari del resto neppure i casi in cui un protestante si faccia cattolico o un cattolico divenga membro di una chiesa protestante, senza che si parli, come una volta, di «abiura» o di «conversione», e senza quelle rotture di legami familiari o sociali che pesavano gravemente su coloro che per convinzione decidevano di passare da una chiesa all’altra. Problemi, certo, sussistono, ma non hanno più la drammaticità di una volta.

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LE DIFFERENZE CHE RESTANO

Rimane tuttavia il grosso scoglio del quale abbiamo parlato a lungo: la centralizzazione della chiesa attorno alla figura del papa, che governa e regge la sua chiesa cattolica come un sovrano assoluto di un tempo. É un’evoluzione che si è accentuata durante l’ultimo pontificato, e che potrebbe accentuarsi ancora. Ma non è un’evoluzione fatale. Essa potrebbe venire relativizzata, in futuro, con un’inversione di marcia coraggiosa, dando maggiore spazio alle voci, alle volontà e alle intelligenze che si manifestano in tutta la chiesa. L’una e l’altra direzione è e resta autenticamente cattolica, non è questo il punto. Ma un’ulteriore centralizzazione creerebbe un ostacolo insuperabile allo sviluppo dell’ecumenismo ed incoraggerebbe l’esodo già in atto dalla chiesa cattolica, che è un fatto noto, anche se poco pubblicizzato. Un esodo verso l’apatia religiosa, verso altre religioni, verso il protestantesimo.

  Oppure, e questa è la nostra speranza, coloro che nella chiesa cattolica hanno la responsabilità del potere riprenderanno la strategia indicata dal Concilio Vaticano II, aprendosi totalmente al mondo delle altre chiese cristiane, in dialogo aperto e sincero con le altre religioni e con ogni uomo e ogni donna interessati alla verità. Questo è il nostro auspicio e il nostro augurio. Vorremmo davvero che in futuro non troppo lontano parole apparissero inutili e superate: relitti di un passato confessionale di cattolici contro protestanti e di protestanti contro cattolici, che conservano il ricordo delle antiche lotte per la verità, ma che può ora essere sopravanzato dalla scoperta di una verità più ampia e comprensiva, che permetta ai cristiani di tutte le chiese — almeno a loro — di ritrovarsi insieme senza separazioni confessionali, davanti all’unico Signore e salvatore di tutte le chiese e di tutti gli uomini, che è Gesù Cristo.

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