Verso una Siria sempre più iraniana e russa? il conflitto in Medio Oriente visto da Beirut

Scritto da L'informazione di Rbe il . Postato in Notizie Evangeliche, Tra parentesi

Sono passati circa tre anni e mezzo dall’inizio del conflitto in Siria, nato come opposizione al regime di Bashar Al Asad, eppure la situazione continua ad evolvere in modo molto diverso da quanto potessero pensare e sperare le potenze politiche occidentali, Stati Uniti ed Unione Europea in testa. Provando a tracciare un bilancio di questi ultimi mesi, non possiamo che soffermarci su due aspetti: il primo è la grande ascesa dell’IS (Islamic State, precedentemente nota come ISIS o ISIL) e l’apparente crisi di Al Qaeda, il secondo è il ruolo di Asad, che sembra essere stato sopravanzato proprio dall’IS nel ruolo di “nemico dell’Occidente”.

Siamo di fronte ad una guerra regionale, ed è impossibile analizzare la questione siriana senza correlarla a quella irachena. Ma come cambiano gli equilibri nella regione? Ne abbiamo parlato con Lorenzo Trombetta, giornalista e corrispondente ANSA da Siria e Libano, nonché curatore del sito sirialibano.com, che contiene numerosi articoli e riflessioni sulle vicende siriane e libanesi.

Ascolta l’intervista a Lorenzo Trombetta, giornalista e corrispondente ANSA da Siria e Libano.

Le vicende irachene e siriane degli ultimi mesi hanno messo in luce una sorta di avvicendamento sotto i riflettori tra due realtà jihadiste, Al-Qaeda e IS. Visto da lì, dal Medio Oriente, cosa accomuna e cosa differenzia questi movimenti?
Innanzitutto, quando parliamo di jihadisti e se parliamo di jihadisti armati, dobbiamo pensare ad una categoria molto ampia di miliziani ideologicamente convinti di andare a combattere una guerra santa, nel senso di come la concepiamo noi nel mondo occidentale. Stiamo parlando di una guerra che è giustificata a livello religioso nel mondo islamico come difensiva. Nello specifico i jihadisti sciiti, molto attivi in Iraq e in Siria, si ritengono tali perché stanno difendendo, almeno a livello retorico, i luoghi santi sciiti, dando così carattere difensivo alla loro azione. Analogamente, anche quelli che noi definiamo jihadisti sunniti, ed in particolare quelli dello Stato Islamico, che sui nostri media vengono descritti con maggior ostilità rispetto agli sciiti, cercano dal loro punto di vista di ripristinare uno stato islamico mitico, distrutto o comunque calpestato dagli invasori, siano essi occidentali, siano essi sciiti o di altre confessioni. Per loro è una questione di riappropriazione, quindi ancora una volta descritto come un jihad difensivo.
Nell’ambito jihadista abbiamo poi la corrente qaedista, che è semplicemente una variante che si rifà più marcatamente all’ideologia di Al–Qaeda, l’organizzazione fondata da Bin Laden, oggi formalmente guidata da Ajman Al-Zawahiri, che però sappiamo essere in declino, almeno come ideologia di Al-Qaeda della prima generazione.
Questo per far capire che all’interno di questi scenari si muovono vari gruppi con delle sigle molto ampie, poi all’interno bisogna anche andare oltre alla questione ideologica e religiosa. Dietro alle quinte ci sono spesso interessi economici, politici, lontani dall’aspetto religioso e ideologico.

Quali sono le conseguenze per il Libano?
Il Libano risente relativamente poco del nuovo flusso di profughi iracheni, che invece stanno inondando altri paesi della regione. Ieri la notizia che dall’inizio dell’anno ad oggi un milione di iracheni sono scappati all’estero, che si aggiungono ai quattro milioni di siriani che dal 2011 ad oggi sono fuggiti all’estero. In Libano gli iracheni arrivano in maniera molto limitata, il flusso continua ad essere imponente dalla Siria. Certo, alcuni iracheni cristiani sono rifugiati in Libano, perché naturalmente è un paese che ospita la più consistente comunità cristiana del Medio Oriente. Qui a Beirut, ma in generale in Libano la questione irachena è meno sentita anche dal punto di vista umanitario.

Intanto mercoledì 10 settembre gli Stati Uniti annunceranno la loro strategia per il Medio Oriente. Ci dobbiamo preparare ad una nuova stagione simile a quella della “War on terror” di Bush all’inizio del secolo?
Gli Stati Uniti hanno già cominciato a fare campagna elettorale, e come in tutte le campagne elettorali devono comunque mostrare di avere sì una strategia chiara e una capacità di decisione, ma al tempo stesso devono evitare di perdere consenso interno. Questi annunci sono un dispositivo retorico per mostrare che, nonostante le decapitazioni dei due giornalisti americani, gli Stati Uniti qualcosa faranno. Di solito, quando si lancia una guerra la si lancia e basta, non si annuncia ogni dettaglio di come questa guerra si farà, è un po’ come tutte le questioni della vita intima: “chi ne parla non fa e chi invece fa non ne parla”. Il fatto che Obama da due settimane continui a dire «abbiamo una strategia» o «non abbiamo una strategia», «adesso vi diciamo cosa faremo», «adesso vi diciamo che posizioni useremo» mostra che evidentemente la sua amministrazione sta ancora studiando la guida turistica dell’Iraq.
Insomma, uno si aspetta che una strategia l’abbiano nel cassetto già da tanto tempo e la utilizzino quando serve, per cui evidentemente o i media raccontano soltanto parte della verità oppure davvero, come Obama stesso ha ammesso, una strategia ancora non ce l’hanno. E sembra anche che questi annunci siano sempre seguiti a video shock di decapitazioni e sembrano quindi più delle reazioni emotive e non delle reazioni politiche a freddo studiate a tavolino nell’ambito di una politica a coerente e a lungo termine. Spesso sembra che gli Stati Uniti siano molto più interessati ad arrivare alla fine del mandato presidenziale di Obama che non a impegnarsi veramente a realizzare quello che dicono, in termini di politica estera.
Pensiamo invece alle strategie di Iran e Russia: parlano molto meno i russi, parlano molto meno gli iraniani, ma è evidente che hanno una politica decennale coerente, che può piacere o meno, ma se dobbiamo pesare e valutare la politica iraniana e russa nella regione, non possiamo non notare una discrepanza di coerenza e di lungimiranza tra queste due potenze regionali e internazionali rispetto a un’amministrazione Obama e anche un’amministrazione britannica che sembrano davvero andare a tentoni.

Viene anche da chiedersi se poi alla fine dei conti non avessero ragione Siria e Iran a sostenere Asad. Possiamo anche pensare che Asad sia oggi in una posizione molto più forte rispetto al passato?
Di facciata si è rafforzato, perché continua ad essere presidente, almeno ufficialmente, continua ad avere il sostegno dei suoi alleati tradizionali, ma anche di tanti altri che erano scettici e ora scelgono di salire sul carro del vincitore, anche culturalmente e non soltanto politicamente, e quindi a breve termine continua ad essere forte. Se però andiamo a studiare e analizzare la struttura del regime di questi tre anni e vedere quanto il regime di Bashar Al–Asad è cambiato per far fronte alla situazione in atto, notiamo che è un regime che ha perso molta molta sovranità pagando all’Iran e alla Russia questo prezzo. Oggi il regime siriano è molto più iraniano nella stanza dei bottoni, ci sono molti più ufficiali iraniani e russi, e un domani il fatto che l’Iran e la Russia hanno comunque puntellato fino ad oggi e continueranno a puntellare un regime non soltanto in crisi ma indebolito dall’interno porterà a dover pagare questo prezzo. Anche se il regime di Asad continuerà ad essere formalmente in piedi domani e dopodomani, comunque sarà una Siria molto più iraniana e russa, almeno quella controllata territorialmente dalle forze lealiste.

Quindi si sta effettivamente rafforzando l’Iran. Ma in definitiva, l’Occidente ha sbagliato strategia?
Direi gli Stati Uniti, perché non mi sembra che le altre potenze occidentali abbiano una strategia così a lungo termine. Forse la Germania può averne una, ma di basso profilo. Gli USA, come capita da decenni, usano la politica mediorientale e la politica estera per cercare di rafforzare la propria politica all’interno. In questo senso Obama, visto che aveva annunciato di voler fare grandi cose in Medio Oriente a partire dal rapporto con mondo arabo–musulmano ha fallito, ma semplicemente perché aveva annunciato 10 e poi ha fatto -10. Avesse annunciato zero forse oggi giudicheremmo la politica estera di Obama in modo meno fallimentare. Addirittura molti rimpiangono il suo predecessore Bush perché in qualche modo è stato più coerente nell’aver voluto lanciare la guerra, avendola fatta invece di voler fare la pace e poi invece continuare a lasciare un territorio sempre più diviso tra guerre e barbarie.

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