La Strage dei Valdesi di Calabria

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La strage dei Valdesi di Calabria fu perpetrata dalla fine di maggio al giugno del 1561. Popolazioni di religione valdese, provenienti dalle valli piemontesi insediatesi in Calabria dal XIII secolo, vissero indisturbate fino al XVI secolo, quando iniziarono a professare apertamente la loro fede riformata. Sottoposte dall’Inquisizione a persecuzioni e a un regime di controllo repressivo, si ribellarono provocando l’intervento delle truppe spagnole delVicereame di Napoli, che fecero migliaia di vittime.


Indice


L’emigrazione valdese in Calabria

L’insediamento in terra di Calabria di popolazioni di religione valdese, provenienti dalle valli a ridosso delle Alpi occidentali – prevalentemente le valli GermanascaChisone e Pellice[1] – avvenne forse già in epoca sveva, nel XIII secolo,[2] e si estese soprattutto dalla prima metà del XIV secolo. Lo storico Pierre Gilles, autore nel 1644 di una storia delle chiese riformate, narra come ai Valdesi fossero stati offerti nel 1315, da proprietari terrieri calabresi, fondi da coltivare in cambio di un canone annuo, e con la facoltà di costituirvi comunità esenti dagli obblighi feudali.[3]

Queste colonie di uomini e donne valdesi si stabilirono nella zona di Montalto e costituirono a ridosso delle mura del paese un borgo detto degli Ultramontani «per via dei monti Appennini che stanno tra le valli e quei luoghi».[4] Agricoltori, pastori, allevatori di piccoli animali e tessitori, mantennero la loro fede religiosa leggendo la Bibbia e pregando in occitano nell’interno delle loro case.[5] La loro operosità e semplicità di costumi,[6] la riservatezza mantenuta sulle loro opinioni religiose, o anche una vera e propria dissimulazione, l’aver evitato ogni proselitismo,[7] la lingua incomprensibile e la rada distribuzione degli abitanti su quei territori montagnosi, favorirono la loro pacifica convivenza e riuscirono a evitare sospetti e lamentele da parte del clero cattolico locale.

I Valdesi poterono così espandersi a San Sisto,[8] a Vaccarizzo,[9] a San Vincenzo, a Castagna,[10] a La Guardia, quest’ultima edificata da loro stessi,[11] «ricongiungendosi probabilmente a nuclei di correligionari colà stabilitisi sotto gli Svevi».[12] Essi mantenevano relazioni con le popolazioni delle valli piemontesi grazie ai predicatori itineranti – i cosiddetti «barba»[13] – che, spacciandosi all’esterno per commercianti o artigiani ambulanti, periodicamente li visitavano per mantenerne la fede e informarli sui parenti lontani.[14] Tuttavia questi Valdesi dovevano necessariamente frequentare le chiese cattoliche nelle occasioni particolari di una nascita, di un matrimonio e di un funerale. Si adattarono così a «udire la messa e facevano battezzare i loro figliuoli dai preti cattolici»,[15] manifestando una almeno «esteriore deferenza al culto romano».[16]

Alla fine del XV secolo si verificò una nuova immigrazione di Valdesi dalle valli piemontesi a seguito delle persecuzioni di Filippo II di Savoia e di papa Innocenzo VIII, ordinate nel 1487 con la bolla Id nostri cordis vota,[17] e interessò la Calabria, la Puglia e il Molise.[18] In questa circostanza, nel 1497 il re aragonese Ferdinando II rinnovò ai Valdesi gli accordi già conclusi sotto il regno angioino,[19] e nemmeno la contrastata introduzione dell’Inquisizione spagnola nel Regno di Napoli li colpì: essa si rivolse piuttosto contro gli Ebrei ai quali, nel 1509, si ordinò di «portare il segno di panno rosso, così in petto, acciocché sieno conosciuti per Giudei, e così tenuti e reputati».[20]


La Riforma protestante e l’Inquisizione

lutero

Nel 1517 la pubblicazione delle Tesi sul valore delle indulgenze di Lutero e la scomunica di papa Leone X nel 1520 davano avvio alla Riforma protestante, che presto si estese in gran parte della Germania e della Svizzera. Nel 1530 i barba Giorgio Morel e Pietro Masson, a nome dei Valdesi di Piemonte, Calabria e Puglia, prendevano contatto a Strasburgo con i riformatori svizzeri e tedeschi, e il 12 settembre 1532 nei prati di Chanforan, presso Angrogna, un sinodo generale dei Valdesi di Francia e d’Italia stabiliva di aderire alla Riforma, accettando il principio della giustificazione per sola fede. Conseguentemente, i Valdesi delle valli piemontesi professarono apertamente la loro fede, erigendo anche alcune chiese per celebrarvi il culto, mentre in Calabria «si mantennero ancora per vari anni tranquilli e nascosti».[21]

Mentre fallivano i tentativi di accordo tra cattolici e protestanti, e questi ultimi si consolidavano, pur divisi tra loro su alcune questioni dottrinali, la Chiesa cattolica reagiva: nel luglio del 1542 Paolo III istituiva laCongregazione del Sant’Offizio allo scopo di meglio combattere gli «eretici» coordinando da Roma l’attività delle già esistenti inquisizioni vescovili, e nel 1545 il Concilio convocato a Trento condannava fin dalla prima sessione le dottrine protestanti e avviava una propria riforma interna.

Con decreto del 20 maggio 1553 il Sant’Uffizio aveva affidato al vicario dell’arcivescovo di Napoli l’incarico di «procedere e inquisire segretamente contro gli eretici e i sospetti di eresia» del Regno di Napoli.[22] Tale commissario dell’Inquisizione, il domenicano Giulio Pavesi, faceva riferimento a Roma a un altro domenicano, il cardinale Michele Ghislieri, dal 1566 papa con il nome di Pio V, e si avvaleva della tradizionale struttura dell’Inquisizione medievale, gestita dai frati domenicani, e contemporaneamente rimanevano ancora in vigore le prerogative dei vescovi in materia di inquisizione.[23]

Il 2 febbraio 1554 il Sant’Uffizio emanò un decreto con il quale si ordinava di procedere contro i seguaci di Pietro Valdo.[24] Alla fine di quell’anno il frate minimo calabrese Giovanni de Alitto da Fiumefreddo, inquisito per eresia, confessava l’esistenza di valdesiani nelle zone di Montalto, Guardia e San Sisto. Gli inquisitori non collegarono l’antica eresia valdesiana con la «peste luterana», e si limitarono a ordinare in quelle zone una breve campagna antiereticale a base di prediche, di ammende e di ammonizioni.[25]

I Valdesi di Calabria seppero delle novità intercorse in Piemonte e si posero il problema se fosse opportuno istituire pubblicamente il loro culto. Gille de Gilles, «uno degli ultimi barba»,[26] ossia un predicatore valdese non riformato, giunse dal Piemonte nel 1556 per invitarli a temporeggiare ancora. Per non diffondere il panico fra tutta la popolazione, informò soltanto pochi di loro del pericolo di un’imminente grande persecuzione e li esortò «a mettere segretamente in ordine i loro affari, e a ritirarsi in luoghi più sicuri […] trasmettendo riservatamente gli uni agli altri il suo consiglio».[27]

La grande maggioranza respinse la proposta del barba Gilles. I successi della comunità valdese in Piemonte spinse anzi i Valdesi di Calabria a desiderare una struttura analoga a quella che si erano data i loro confratelli del Nord, con chiese e pastori residenti stabilmente nel territorio. Nel 1558 erano in Calabria i pastori Stefano Negrin, proveniente da Bobbio Pellice, e Giacomo Bonelli, di Dronero: con quest’ultimo, alla fine dell’anno, partirono per Ginevra, dove era stata costituita una Chiesa evangelica italiana, i calabro-valdesi Marco Uscegli di Guardia e Marco Franco di San Sisto.[28]


La missione di Gian Luigi Pascale

La richiesta di avere nuovi e ben preparati pastori per la comunità calabrese fu accolta da Calvino in persona, e nel marzo del 1559 il cuneese Gian Luigi Pascale partì per la Calabria in compagnia di Filippo Ursello e Francesco Tripodi, due catechisti calabro-valdesi formatisi alla scuola di Ginevra, di Marco Uscegli e di Giacomo Bonelli. Quest’ultimo li lasciò in Campania, dirigendosi in Puglia, dove pure esistevano comunità valdesi. Passato poi in Sicilia, Bonelli fu arrestato e bruciato sul rogo a Messina o a Palermo, il 16 febbraio 1560.[29]

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