«Ecco, io vi mando…»

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L’invio del Figlio da parte del Padre è un invio che, in qualche maniera, mette il Figlio a distanza del padre senza distanziarlo da lui; questa «distanza senza distanza» esprime una realtà paradossale, la realtà di una comunione che nessuno di noi conosce
di Stefano Mercurio

Dai ripetuti tentativi del proprietario della vigna nell’inviare suoi uomini di fiducia ai vignaioli, no­nostante la spietatezza e violenza di quest’ultimi, emerge l’enorme pazienza di Dio, ma anche la crudeltà dei primi… Se da una parte Dio osa credere alla conversione e si mostra accondiscendente quando si tratta di concedere ancora una opportunità, dall’altra, la durezza del suo partner (l’uomo) è veramente disarmante. Pur di accrescere il loro gruzzolo questi uomini sembrano pronti a tutto. D. Bourguet ha scritto: «Dio subisce un crescendo di violenza; quanti servitori inviati ai vignaioli,… quante ferite inflitte all’amore di Dio, alla sua fiducia, alle sue speranze. Meravigliosa buona notizia è questo Dio che spera in noi. Quale onore e quale gioia. Tanto più che egli non spera nulla di impossibile…; chiediamoci: è sperare qualcosa di impossibile aspettarsi che una vigna porti il suo frutto una volta che sia giunto il suo tempo? Quanta vergogna anche per noi e quanta sconfitta per lui, quante ferite se noi consideriamo che cosa ci facciamo della sua speranza, della sua pazienza… Signore nostro Dio, Dio di misericordia, abbi pietà di noi!». Un Dio ferito nel suo amore, deluso nella sua speranza e la cui fiducia è spezzata, tale è questo Dio di cui ci parla qui Gesù; questo Dio sempre pronto ad amare, sempre fiducioso, sempre pieno di speranza, si prepara a un ultimo tentativo: «Aveva un unico figlio diletto».

Caro lettore e cara lettrice ti propongo di soffermarci su questo unico punto: l’invio del (F)figlio

Caro lettore e cara lettrice ti propongo di soffermarci su questo unico punto: l’invio del (F) figlio; e poi nella terza meditazione ritornare sulla parabola dei vignaioli per provare a sviluppare qualche altro aspetto. Concentriamoci allora sul verbo che esprime l’invio dei servi e del figlio diletto. Nel­la versione di Luca il pro­prie­­tario della vigna dice: «Che farò? Manderò il mio diletto figlio; forse a lui porteranno rispetto» (20, 13). Là dove Matteo e Marco utilizzano un solo verbo di invio, apostellô, Luca ne utilizza tre, apostellô, exapostellô e pempô. La differenza tra i verbi apostellô e pempô è importante. Con la preposizione apo il primo verbo indica allontanamento, c’è l’idea sia dell’invio della separazione che ne consegue. Il verbo pempô invece, come precisa il dizionario greco-italiano Baylli (che corrisponde in Francia al nostro Lorenzo Rocci), indica l’invio che include una forma di accompagnamento, simile all’azione di una scorta. Questa precisazione è illuminante perché Luca usa pempô per indicare l’invio degli ultimi servitori ma soprattutto per indicare l’invio del figlio diletto (Matteo e Marco utilizzano invece sempre apostellô). Sul piano dei personaggi della parabola, il proprietario della vigna, essendo un semplice uomo, non può essere allo stesso tempo in prossimità e a distanza di colui che viene inviato.

Non si può essere vicini e lontani allo stesso tempo!

Non si può essere vicini e lontani allo stesso tempo! Ma sul piano teologico, se consideriamo Dio, le cose cambiano. Infatti – suggerisce D. Bourguet – Dio può essere vicino e lontano allo stesso tempo. È proprio in questo modo che Dio invia suo Figlio verso un cammino che lo porterà sulla croce: accompagnandolo… Agli occhi umani, Gesù è solo, ma misteriosamente suo Padre l’accompagna. Queste sfu­mature così preziose sono molto presenti nei discorsi di Gesù del Vangelo di Giovanni. I verbi apostellô e pempô ritornano di frequente quando Gesù fa allusione al suo invio nel mondo da parte del Padre. Presi nel loro insieme, apostellô (usato 17 volte) e pempô (usato 24 volte) dicono da una parte che questo invio del Figlio nel mondo è un atto di separazione, di distanza dal Padre «perché le opere che il Padre mi ha date da compiere, quelle stesse opere che faccio, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato (apostellô; Giovanni 5, 36) e dall’altra che questo invio conserva la prossimità tra i due, «Colui che mi ha mandato è con me» (pempô; Giovanni 8, 29) Dobbiamo unire questi due verbi come i due elementi di un paradosso: l’invio del Figlio da parte del Padre è un invio che, in qual­che maniera, mette il Figlio a distanza del Padre senza distanziarlo da Lui; questa «distanza senza distanza» esprime una realtà paradossale, la realtà di una comunione che nessuno di noi umani conosce, perché nessuno tra noi vive il legame di amore che unisce il Padre e il Figlio. Questo legame è talmente forte che il Figlio può dire, senza confusione né separazione: «il Padre è in me e io sono nel Padre» (Giovanni 10, 38). Per far bene le cose noi dovremmo tradurre apostellô in una determinata maniera e pempô in un’altra, solo che sfortunatamente la lingua italiana (come la maggior parte delle lingue moderne) è un po’ povera in questo e siamo costretti a livellare tutto con l’unico verbo inviare. Giovanni dunque sviluppa largamente ciò che Luca non fa che accennare nella sua parabola. Una delle ultime parole che Gesù dice ai suoi discepoli è veramente illuminante: voi mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me (Giovanni 16, 32).

L’invio dei discepoli: la presenza di Cristo

L’invio dei discepoli: la presenza di Cristo. È essenziale per noi essere attenti alla differenza tra apostellô e pempô, accoglierla nella fede e viverla. Non c’è soltanto il Padre che invia il Figlio, c’è anche quest’ultimo che invia i discepoli. È interessante notare che la dinamica di assenza/presenza, significata dai due verbi, sia all’opera anche per l’invio dei discepoli a portare l’Evangelo nel mondo una volta che Gesù sia asceso al Padre. «Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe», ci dice da una parte Gesù con il verbo apostellô, quello della distanza (Matteo 10, 16). La separazione dei discepoli da Gesù non è fittizia; i discepoli sono gettati nel mondo; a un certo punto dovranno camminare con le loro gambe e il maestro non sarà più fisicamente sempre accanto a loro per tirarli fuori dai guai, dagli impicci, dalla frustrazione rispetto alle loro tante incapacità: «Maestro, ho portato da te mio figlio, posseduto da uno spirito muto. […] Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti», dirà a Gesù quel papà che chiede soccorso nonostante il suo residuo di incredulità (Marco 9). I discepoli di Emmaus avrebbero voluto trattenerlo ancora, forse per sempre, ma a un certo punto egli sparì alla loro vista. Allo stesso tempo però questo invio nel mondo ha anche tutta la presenza di Cristo evocata non solo teologicamente ma anche «grammaticalmente» con il verbo pempô «Pace a voi! Come il Padre mi ha mandato, anch’io mando voi» (Giovanni 20, 21).

In questo capitolo di Giovanni il contesto è di ultima parola, alla fine dell’Evangelo

In questo capitolo di Giovanni il contesto è di ultima parola, alla fine dell’Evangelo, prima che egli si renda invisibile, nel momento del congedo da questa terra e quindi nel momento in cui la paura potrebbe invadere il cuore dei discepoli. In questo momento conclusivo dell’invio, in cui Gesù ci lascia la sua pace, il verbo usato è pempô. Questo verbo è là affinché con la sua pace noi possiamo essere rassicurati. Questo è possibile poiché questo invio non è solo quello della distanza, dell’allontanamento, ma quello della prossimità e dell’accompagnamento. I discepoli raggiungeranno i quattro angoli della terra perché già dalla grammatica dei verbi sanno che Gesù è misteriosamente presente, che lo Spirito è promesso; Egli è promessa reale e invisibile capace di accendere in loro la gioia e di trasmetterla anche ad altri.

(Seconda di una serie di cinque meditazioni)
 ( 6 marzo 2013)
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