Assuefarsi al lavoro senza diritti

Scritto da redazione RBE il . Postato in Antonello Mangano, Diritti, lavoro stagionale, migranti, Notizie Evangeliche, Tra parentesi

Due settimane fa una decina di deputati hanno presentato delle interrogazioni parlamentari sul caso delle donne rumene abusate nelle serre del ragusano. La prefettura ha presentato dei protocolli d’intesa tra le varie parti sociali e sono partite delle azioni repressive con controlli a tappeto nelle serre. Sia le istituzioni italiane che quelle rumene lamentano però la mancanza di un lavoro di intermediazione sociale e culturale che permetta alle donne di denunciare la situazione ed evitare che, scemata l’attenzione dell’opinione pubblica, questo mondo senza diritti continui a coinvolgere lavoratori migranti, comunitari e italiani. Ne parliamo con Antonello Mangano, giornalista, autore di ricerche e inchieste sui temi dell’immigrazione e la lotta alla mafia.

Nel suo lavoro è venuto in contatto con le difficili condizioni dei migranti stranieri impiegati nei lavori agricoli stagionali su tutto il territorio nazionale, si può parlare di nuove schiavitù?

Si può parlare di un laboratorio del lavoro schiavile più che di forme circoscritte di schiavitù, nel senso che quelli che erano fenomeni delimitati sono diventati sempre più estesi. All’inizio riguardavano soprattutto i lavoratori stagionali africani, poi sono arrivati i lavoratori stabili comunitari e oggi sono anche i lavoratori italiani a vivere in condizioni di forte ricatto. Le definizioni che si danno in ambito sociologico sulle forme di schiavitù sono l’assenza di alternative al ricatto ed è una condizione in cui si trovano moltissimi lavoratori, sia italiani che migranti.

Parliamo della situazione dei lavoratori e, in particolare, delle lavoratrici nel ragusano

Qui si è visto forse l’ultima frontiera di uno sfruttamento che coinvolgeva la sfera sessuale. Si tratta di donne in condizioni di estrema fragilità e povertà, che in mancanza di alternative si trovano a lavorare in condizioni di segregazione in aperta campagna; zone molto isolate in cui è difficile spostarsi, portare i figli a scuola e condurre una vita normale. È una condizione che riguarda un numero molto elevato di persone che si sono trovate a essere talmente ricattabili, non solo dal punto di vista lavorativo, ma anche per quelle che sono le condizioni fondamentali della dignità umana, che sono soggette a subire ricatti di tipo sessuale. Inoltre non si può addossare la colpa al territorio e alla mentalità di quelle persone: sappiamo che anche in altre zone d’Italia, Piemonte compreso, si vivono situazioni di sfruttamento. Il ragusano non è una zona povera, intrattiene relazioni commerciali con tutta Europa e sono presenti laboratori di sperimentazione genetica sui semi. È difficile, però, per la mentalità delle persone, far convivere la modernità fantascientifica e la brutalità del ricatto sessuale: tendiamo a separarle e non pensare che, mentre stiamo facendo la spesa, compriamo prodotti che provengono da queste realtà di sfruttamento.

Come ha reagito la comunità locale?

La comunità, che era a conoscenza della situazione da molti anni, si è divisa. Qualunque cosa a lungo andare diventa “normale” e alcuni hanno scelto il silenzio, ma moltissimi hanno denunciato, lavorato e avviato progetti di sostegno. È una zona in cui la società civile è ricca e articolata, più che in altre zone d’Italia dove le contraddizioni non emergono perché non si denuncia la situazione e non esistono programmi di aiuto. Probabilmente la situazione è venuta a galla proprio per via di queste contraddizioni; è possibile che in altre zone l’assuefazione generale non permetta alla realtà di emergere

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